
Disposti uno a fianco all’altro, i ragazzini fissano il pentagramma disegnato sulla lavagna. A un cenno dei maestri, Valentin e Semiro, le loro bocche si dischiudono. E, in coro, intonano “Fratelli d’Italia”, in perfetto italiano. Mentre cantano, si fa fatica a ricordarsi di essere all’interno del “Centre de reeducation des mineurs en conflit avec la loi” di Port-au-Prince, unico carcere per minori di Haiti. Nel resto del Paese, gli adolescenti vengono rinchiusi negli stessi penitenziari degli adulti, sebbene in sezioni separate. Almeno in teoria. Con oltre 10.500 detenuti – i tre quarti in attesa di giudizio -, il Paese più povero d’Occidente è anche il secondo al mondo – dopo le Filippine – per sovraffollamento carcerario: 454 per cento, secondo l’Institute for criminal policy research dell’Università di Londra. Ammassati in cento in celle fatte per venti persone, uomini e donne attendono anni prima di andare in tribunale. L’attuale recessione economia ha peggiorato ulteriormente la situazione: il cibo, già scarso, arriva ormai con il contagocce, le medicine sono introvabili. Le morti per malnutrizione, malattie banali o risse non si contano: sono state 86 vittime solo negli ultimi nove mesi.
I 49 baby reclusi del “centre” della capitale, almeno, hanno una struttura tutta per loro. Alcune delle sei maxi celle hanno perfino delle brandine. Soprattutto, grazie all’impegno delle Organizzazioni non governative e delle Chiese, gli adolescenti reclusi hanno a disposizione attività a cui “fuori”, nelle baraccopoli in cui sono nati e cresciuti, non hanno mai avuto accesso. Come i corsi di musica e capoeira, realizzati con il sostegno di Caritas italiana. Due volte alla settimana, i ragazzi si ritrovano nella sala centrale del “centre” per le lezioni.